Il viaggio ed i suoi significati

Il viaggio ed i suoi significati

Il fenomeno del turismo di massa e dell’immigrazione di massa di clandestini dal Nord-Africa devono sollecitare a riflettere sugli aspetti psicopatologici del viaggio e suoi significati.
Il viaggio ha avuto nel corso della storia dell’umanità innumerevoli significati. Anche oggi, esso viene vissuto ed interpretato dalle persone in modi completamente diversi.
Può un viaggio rappresentare un’esperienza psicologica favorevole allo sviluppo dell’individuo? Può la medicina e le competenze possedute dalla psicologia, dalla psichiatria e dalla medicina del turismo, aiutare il viaggiatore a crescere sul piano cognitivo ed emozionale attraverso l’esperienza del viaggio? Per rispondere a queste domande occorre soffermarsi sui principali significati del viaggio.
L’uomo è una specie migratoria. Attraverso le migrazioni dall’Africa verso l’Europa e l’Asia gli ominidi si sono evoluti fino ad arrivare all’homo sapiens. L’Homo erectus ( o un suo antenato l’Ergaster, più antico, ma più avanzato evolutivamente) è considerato il primo grande migratore dell’umanità: dalle savane d’Africa che lo videro vagare oltre un milione di anni fa, arrivò fino all’Asia orientale.
L’attuale turismo di massa ( l’Organizzazione Mondiale del Turismo riporta oltre 600 milioni di viaggiatori internazionali all’anno) deve avere certamente una spiegazione di carattere antropologico, anche se non ancora sufficientemente studiata.
Nel marzo 1988, il Centro OMS per la Medicina del Turismo aveva organizzato a tal scopo la prima Conferenza Europea di Travel Medicine, intitolata appunto “ Mobility and health: from hominid migration to mass tourism” ed aperta dall’illustre paleontologo Donald Johanson, lo scopritore di Lucy.
Bowlby ritiene che i bambini smettano di piangere quando dondolati a causa di una memoria ancestrale che li riporta a quando erano portati sulle spalle dai loro antenati lungo i sentieri preistorici. La culla oggi riproduce i movimenti di quei tempi remoti.
Da tempo il viaggiare è un modo di mutare, un metodo per cambiare la propria posizione sociale, sfuggire alla giustizia del proprio paese per reati commessi o, più nobilmente acquistare fama per studi archeologici o geologici, o più semplicemente trovare un lavoro per sfamare se stessi e la propria famiglia.
La trasformazione dell’individuo sociale nel viaggio, il diventare qualcun altro per mezzo del transito territoriale sono stereotipi letterari e fatti comuni nell’esperienza, dove per esempio un membro del ceto medio con un reddito limitato, può decidere di vivere un fine settimana come un nobile od un ricco scegliendosi alberghi di extra lusso ed ogni altro genere di comfort.

L’emigrazione come ripartenza, rinnovamento e catarsi è stata descritta da Paolo Mantegazza (1831-1910), medico, antropologo, scrittore ed anche grande viaggiatore con le seguenti parole: “ In Argentina vi è un grande avvenire per tutti quelli che fra noi nacquero nei bassifondi della povertà o che nel mezzo della vita furono schiantati da una bufera economica o morale.
Il cambiar clima guarisce molti mali, così come l’emigrazione purga e guarisce molte nazioni. Povero quel paese che non abbia una terra lontana e quasi sua, dove possano trapiantarsi i violenti e gli impazienti, dove possano errare le comete della società civile, dove possano guarirvi gli ammalati nel sangue e nel cervello.
Quando l’emigrazione non è fuga, né vendetta sociale, né fame è un divellente che mantiene vigoroso ed agile l’organismo delle nazioni e l’Italia può trovare in nessun luogo terreno più opportuno ai suoi emigranti quanto nel Rio de La Plata. La bellezza del clima, le vive simpatie degli argentini per noi, le lunghe tradizioni di più secoli ci hanno chiamato in quelle terre benedette dal genio di Colombo”.

Si può viaggiare anche oggi per fuga, alla ricerca di una propria libertà interiore, spinti dalla reazione a convenzioni sociali o da filosofie consolatorie.
Si può viaggiare per fede, come avviene nei pellegrinaggi o nelle visite ai santuari e agli oracoli anticipatori del turismo di massa. La cosiddetta geografia della devozione: Lourdes, Fatima, La Mecca, lo stesso Giubileo sono pietre miliari del viaggio religioso dove si confondono misticismo, svago e penitenza.
La concezione del viaggio come penitenza è vecchia come i viaggi della coppia originaria, scacciata dal giardino dell’Eden per i suoi peccati, alla quale viene ingiunto di viaggiare e faticare per espiare delle colpe.
La partenza spezza i legami tra il peccatore e luogo con le sue occasioni di peccato. Forse è per questo che il viaggio, come l’esilio, era visto nello stesso tempo come una punizione, una cura, un castigo, una purificazione. La religione islamica presuppone che un buon musulmano effettui almeno una volta nella vita un pellegrinaggio alla Mecca. Il Medio Evo si caratterizzò per i pellegrinaggi cristiani a Santiago de Compostela, Roma e Gerusalemme. La Palestina cominciò ad essere meta fondamentale dei pellegrinaggi nel quarto secolo, nello stesso periodo in cui si formò un canone di testi cristiano.
L’incorniciamento e l’elaborazione dei luoghi santi, la sacralizzazione dei luoghi frequentati da Gesù Cristo cominciarono nel 326 con la visita di Elena , madre di Costantino, in Palestina. Ad incoraggiarla fu il vescovo Macario di Elia Capitolina (Gerusalemme aveva assunto questo nome dopo la sua distruzione e la sua ricostruzione del 130, sotto Adriano), il quale, durante il concilio di Nicea nel 325 le aveva detto che occorreva preservare e commemorare la passione di Cristo attraverso la sacralizzazione di luoghi. Durante la visita a Gerusalemme, Elena identificò i siti fondamentali della nascita, della vita e della morte di Cristo, tra cui quello del Santo Sepolcro, la liberazione del quale costituì lo scopo delle varie crociate.
Fin dall’inizio della letteratura di viaggio, si pensò che il viaggio ampliasse le conoscenze del viaggiatore attraverso l’osservazione e l’elaborazione delle differenze riscontrate e si ritenne che ciò provocasse una trasformazione qualitativa dello stato intellettuale del viaggiatore.

L’idea che il viaggio potenzi l’intelligenza del viaggiatore è antica come Gilgamesh, il quale grazie ai suoi viaggi conobbe i paesi del mondo, divenne saggio, interpretò misteri inspiegabili fino ad allora.
Stradone elenca coloro che cercano il senso della vita tra quelli che hanno il vizio di “vagare per le montagne” e ripete un’idea che era proverbiale nel primo secolo a.C., quando scriveva “ Gli eroi più saggi furono quelli che visitarono molti luoghi e vagarono per il mondo: i poeti onorano chi ha visto le città e conosciuto la mente degli uomini”. Anche Ulisse viaggiò per Dante per seguire “virtude e conoscenza”. Si può viaggiare dunque anche per studio e ricerca, sull’esempio degli archeologi ed esploratori del passato, per una sfida ed un arricchimento culturale, come interpreta il grande viaggiatore Von Humboldt insistendo sull’importanza del contatto diretto con le diversità e le forme policrome della natura.
La scienza moderna sorge in un contesto in cui gli europei diventano viaggiatori coscienti di sé all’interno e all’esterno dei confini di una civiltà, in un contesto di esperienza in cui popoli, civiltà, piante, animali e paesaggi diventano oggetto di studio. Il viaggiatore non raccontava più cose favolose, ma correggeva errori, scopriva verità.
In questa nuova immagine di viaggiatore-scienziato era implicita l’idea che le sue osservazioni fossero sufficienti per conoscere e dare un nome alle cose, distinguere le specie in categorie e descrivere con oggettività le realtà osservate.

Nel ventesimo secolo l’immagine del viaggiatore ha acquistato anche una connotazione sociologica di “estraneo”. Questa definizione contiene ancora quelle caratteristiche a cui pensavano gli antichi quando definivano il viaggiatore come “filosofo” ed anche quelle idee che all’inizio dell’età moderna portarono all’attribuzione di una particolare dignità al viaggiatore che si comportava come osservatore oggettivo e un descrittore del mondo.
In virtù della mobilità e della lontananza con cui valuta e giudica, l’”estraneo” può cogliere la generalità dei rapporti indipendentemente dalla situazione locale.
Le caratteristiche del viaggiatore sono, secondo Rimmel: la libertà, l’oggettività, la generalità e l’astrazione. Il viaggiatore osserva e registra. Egli può descrivere la realtà che osserva e conosce in modo maggiore o minore a seconda del suo livello di cultura. Ma “estraneo” significa anche “straniero”. Lo straniero viene visto come estraneo dalla comunità che lo riceve e viceversa e da questo confronto possono scaturire conflitti o elementi positivi.

Questo tipo di contatto, di rapporto con la comunità locale deve essere analizzato, valutato per poter interpretare lo stato mentale del viaggiatore, le sue inibizioni, le sue potenzialità di crescita.
I miti arcaici sono fondati sull’eroe nomade (Gilgamesh, Ercole, Ulisse) e sui grandi viaggiatori conferenzieri dell’umanità come Erodono o l’arabo Ibn- Batuta.
Si può viaggiare anche per raccontare, scrivere o filmare o, come avvenne all’epoca dei grandi esploratori per affascinare i lettori con storie mirabolanti delle nuove Terre scoperte.
Descrivere esperienze di viaggio non significa solo fare cronaca di vicende belliche, situazioni politiche, fenomeni sociali o descrivere bellezze artistiche o paesaggistiche, ma anche – ed è possibilità di tutti i viaggiatori – narrare esperienze personali, raccontare emozioni, svelare se stessi attraverso ciò che il viaggia ha suscitato.
Si può viaggiare per imitazione, perché altri lo fanno e bisogna seguire modi, per consumismo. Il viaggio come consumo è spesso un viaggio “tutto compreso” che include il collezionismo turistico: numero di viaggi come medaglie al valore, souvenir sempre più originali, video e filmati delle avventure di viaggio, ecc.
Ne fanno le spese l’originalità, la genuinità e la spiritualità delle tradizioni e dell’arte dei popoli visitati. Molti paesi dell’Asia, dell’Oceania, dell’Africa e del Sud America subiscono forti pressioni da parte dell’industria del turismo e modificano tradizioni e culture in funzione del consumismo di massa.

Era prevedibile che in un mondo in cui grandi distanze sono coperte in poche ore da aerei sempre più veloci, diventi sempre più stimolante la ricerca di destinazioni sempre più “esotiche”, la ricerca dell’”impossibile” e del diverso da parte dell’uomo sedentario e comune.
Secondo l’ antropologo Ligabue “ L’informazione in tempo reale, internet, stanno paradossalmente smussando i misteri, cancellando le fiabe ed i miti rendendo la vita monotona, confezionata e ripetitiva. Gli spazi vuoti non esistono quasi più o sono spazi impossibili.
Esistono montagne con il semaforo per gli scalatori, si fa la coda per accamparsi nel deserto del Sahara, sotto le rocce del Tassili; i rinoceronti di Ngoro-Ngoro hanno tutti il loro nome, gli indigeni posano per cineprese in T-shirt e bevendo lattine di coca-cola.
Le grandi paure ataviche del viaggiatore si sono trasformate in paure logistiche: paura di perdere l’aereo o una coincidenza, costi eccessivi, ecc. L’apporto culturale del viaggio si traduce nell’esaltazione di un feticismo degli oggetti-ricordo, delle fotografie scattate, dell’esotico in carata patinata e dei filmati da proiettare a testimonianza dell’esperienza vissuta”.
Siamo così di fronte ad una geografia dell’illusione in cui gli itinerari confezionati dai tour operator secondo regole di mercato diventano espressione di comportamenti remissivi e superficiali.
Vi sono poi viaggi come quelli che rientrano nella definizione del turismo sessuale che esprimono devianze. Il viaggio mimetizza comporta un allontanamento dai riti e dalle convenienze sociali del luogo stanziale per proiettare l’individuo in contesti profondamente diversi dove la coscienza viene tacitata ritenendo mistificatoriamente che là vigano leggi e morali diverse da quelle del proprio paese.
Si può viaggiare infine per mettersi alla prova, per sfidare la sorte, per provare l’ebbrezza del rischio come fanno alcuni viaggiatori che -nonostante le raccomandazioni della Farnesina- viaggiano in luoghi assolutamente sconsigliati per la presenza di importanti situazioni di rischio come conflitti militari, presenza di predoni, pirati, o epidemie in corso.

Vecchie e nuove epidemie

Vecchie e nuove epidemie

La storia dell’uomo è stata accompagnata da grandi epidemie che ne hanno condizionato l’evoluzione ed il percorso storico. Quando le popolazioni hanno iniziato a raggiungere una certa densità ed hanno incrementato la mobilità hanno creato i presupposti per la diffusione di malattie epidemiche, capaci di colpire in breve tempo molti individui. Non è sempre facile poter identificare la malattia responsabile di ogni singola epidemia. Con il termine “peste” oggi riferito ad una specifica malattia, si indicavano tutte le malattie a grande diffusione ed elevata mortalità.Le parole peste e contagio incutevano terrore perché collegabili immediatamente alla morte. Da tempi immemorabili la peste era considerata un flagello divino ragion per cui essa veniva esorcizzata facendo ricorso alla mediazione dei santi, come San Rocco, o della Madonna. E’ per ringraziare la Madonna per aver consentito la fine della peste a Venezia che i veneziani fecero erigere nel 1600 Santa Maria della Salute. Oltre ad essere interpretate come castigo divino le pestilenze vennero interpretate facendo ricorso all’ astrologia ( congiunzioni ed opposizioni di pianeti) o alla teoria dell’avvelenamento ( ad ebrei e lebbrosi venne attribuita la responsabilità della peste nera del 1300, agli “untori” – come scrive Manzoni nei Promessi Sposi- quella del 1630. Tutte queste interpretazioni esprimevano chiaramente una radicata sensazione di impotenza e ineluttabilità. La spaventosa mortalità delle epidemie era ben nota e tristemente e fatalmente attesa.
Necessità di informazioni attendibili e tempestiveTutti coloro che erano istituzionalmente preposti al governo delle città erano interessati alla salute dei loro concittadini e si rendevano conto della necessità di avere notizie aggiornate sulle condizioni di salute delle popolazioni vicine essendo consapevoli che soltanto informazioni tempestive sulla comparsa di qualche focolaio epidemico costituiva la più efficace premessa per misure preventive. Nei secoli passati, i canali di informazione di cui le autorità si potevano servire erano i viaggiatori- per terra o per mare- che raccoglievano informazioni nelle stazioni di posta o nei porti. Questi viaggiatori si potevano considerare come le attuali sentinelle dell’attuale sorveglianza epidemiologica o ambasciatori sanitari inconsapevoli. A volte, le autorità davano a validi funzionari o a medici l’incarico di recarsi ufficialmente o in segreto nei paesi vicini, negli stati confinanti ove vi fosse il sospetto di qualche malattia contagiosa per riportare in patria notizie attendibili. Dalla metà del 1500, le autorità si scambiarono informazioni di carattere sanitario, impegnandosi a non celare la verità, sempre più convinte che questa reciproca lealtà era la più seria garanzia di tutela della salute reciproca. I vari Magistrati, le varie Congregazioni di Sanità inviavano perciò alle strutture estere consorelle circolari puntuali ed aggiornate, ma in pratica accadeva che non sempre i medici erano d’accordo sul carattere epidemico di certe malattie o che le autorità dimostrassero incredulità di fronte alla diagnosi di un medico o che intenzionalmente nascondessero alla popolazione la gravità della situazione per non destare allarme. Spesso accadeva che la popolazione si allarmasse a dismisura o restasse pericolamene tranquilla. Accadeva anche che molte voci allarmistiche venissero diffuse di proposito e che le autorità fossero costrette a diffondere dichiarazioni pubbliche di smentita. La messa al bandoUna delle misure più impegnative messe in atto da tutti gli stati per proteggersi dalle pestilenze era la messa al bando di una città, di un paese dove si sospettava l’esistenza di un focolaio di contagio. La messa al bando era strettamente correlata ad un’altra misura di protezione: l’istituzione di cordoni sanitari in terra o in mare per evitare il contagio. La messa al bando va considerata come il mezzo più frequentemente usato per cercare di realizzare una prevenzione delle malattie epidemiche. Essa comportava l’interruzione di ogni rapporto commerciale e di comunicazione con la località o il paese considerato potenzialmente fonte di contagio. I paesi dell’Impero Ottomano e dell’Africa venivano spesso banditi perché ritenuti pericolosi.Per diffondere il messaggio del rischio e della necessità di interrompere viaggi verso località o paesi le autorità civili o sanitarie usavano persone chiamate “banditori” che avevano il compito di diffondere questo messaggio tra la popolazione sparsa sul territorio e per lo più analfabeta. L’ordine trasmesso attraverso il banditore veniva chiamato Bando, Editto, Ordinanza o Decreto. La disinfezione delle lettereLa posta è stata considerata per secoli un pericoloso veicolo di contagio: La carta era di per sé ritenuta suscettibile di ricevere, conservare e trasmettere il contagio. E’ facile pertanto immaginare la diffidenza da cui era pervaso chi- prima ancora del destinatario- doveva toccare una missiva lungo il viaggio che essa intraprendeva per giungere a destinazione. La disinfezione della posta (lettere, manoscritti, dispacci, giornali) è stata una delle più comuni misure messe in atto nell’intento di prevenire la diffusione del contagio.Le lettere potevano essere disinfettate esternamente o anche esternamente ed internamente. Lungo le strade consolari o comunque lungo i percorsi dei flussi postali si trovavano le stazioni di disinfezione dove un certo numero di addetti, forniti di guanti, grembiuli di tela cerata prendevano con lunghe pinze le lettere, le ponevano su un tavolo, le aprivano, le disinfettavano per poi raccogliere e bruciare ogni frammento di carta rimasto. Le modalità di disinfezione sono state diverse a seconda delle zone e delle epoche. Per secoli, le virtù purificatrici attribuite al fuoco hanno tranquillizzato gli incaricati alla disinfezione delle lettere. Si usavano legni odorosi, sostanze aromatiche oppure sterpaglie. Purtroppo la carta si bruciava facilmente per cui era necessaria una grande attenzione nei passaggi delle lettere sulla fiamma. Si spaccava nel senso della lunghezza l’estremità di una canna e nello spacco si infilava il foglio da passare sulla fiamma. L’immersione nell’aceto era anch’esso ritenuto un sistema molto sicuro di disinfezione. Le lettere erano aperte, spruzzate con l’aceto, quindi asciugate. Anche questo sistema aveva degli inconvenienti poiché non tutti gli inchiostri resistevano all’aceto ed alcuni manoscritti diventavano illeggibili: danno irreparabile quando si trattava di lettere commerciali o di documenti bancari. Nel tentativo di evitare una parte almeno dei suddetti inconvenienti, gli operatori cercavano di abbreviare al massimo il tempo dell’immersione. Entrambe le modalità di disinfezione esigevano l’apertura delle lettere, quindi davano la possibilità di violare il segreto epistolare. In certe stazioni di disinfezione, l’operazione avveniva in presenza di un funzionario degli Affari Esteri o di un funzionario di Polizia. Solo nel 1886, a seguito della scoperta dell’agente eziologico del colera e dopo la Conferenza Sanitaria di Parigi (1855) le lettere furono considerate estranee alla possibilità di diffondere malattie e qualche tempo dopo fu sospesa la loro disinfezione.E’ paradossale che a distanza di tanto tempo – come è accaduto begli USA durante i mesi in cui spore di antrace venivano diffuse come azione di bioterrorismo- il contagio sia avvenuto proprio attraverso uno strumento considerato erroneamente pericoloso per oltre 400 anni.Misfatti sanitari e pene correlateNei secoli passati, le rigide leggi in materia di sanità erano enunciate sempre in maniera molto chiara. Quindi era facile battezzare come reo chi le infrangeva e difficile sfuggire al loro rigore. I misfatti più frequenti si possono ricondurre a quelli espressamente previsti nella maggior parte dei Regolamenti Sanitari come l’oltrepassare i limiti prescritti del cordone sanitario. Le pene erano particolarmente severe e comportavano spesso la pena di morte, mutilazioni o torture. Le imbarcazioni potevano essere spesso responsabili di gravi misfatti sanitari. Le pene erano estese talvolta ai familiari. Ben nota è la “Storia della colonna infame” narrata da Alessandro Manzoni: questa colonna fu eretta nel 1630° Milano sull’area risultante dalla demolizione della bottega di un barbiere condannato come untore affinché tutti potessero ricordare l’evento e l’esemplare condanna.La delazione era all’ordine del giorno, non sempre dettata da una legittima paura, a volte legata a qualche interesse particolare ed al desiderio di vendetta. Sulla scalinata della Basilica Palladiana di Vicenza si può ancor oggi ammirare il marmoreo mascherone nella cui bocca beffarda ogni cittadino poteva inserire le sue denunce segrete in materia di sanità. Documenti sanitari per viaggi di terra e di mareIn tempi di contagio scattavano misure restrittive finalizzate a proteggere le comunità ancora indenni. Gli arrivi di persone, merci ed animali erano visti con occhio spaventato e tutti cercavano di proteggersi da questi possibili veicoli di infezione. Una delle misure di prevenzione più antiche, la più diffusa e meglio documentata, fu l’istituzione della Fede di sanità, attestato di cui si doveva munire chi iniziava un viaggio di terra e che “faceva fede”, certificava lo stato di salute di cui godeva il paese di partenza del viaggiatore e di conseguenza, presumibilmente, del viaggiatore stesso. La Fede di sanità, vero e proprio Passaporto Sanitario, era considerata un documento particolarmente importante che le autorità nel timore di frodi seguivano attentamente dal momento della stampa fino a quello della consegna a chi lo doveva compilare.Mentre l’analogo documento che accompagnava una imbarcazione – la Patente di sanità- era necessariamente rilasciata dall’autorità di un porto ( da una Deputazione Sanitaria investita di grandi poteri), la fede di sanità era rilasciata anche in piccoli agglomerati urbani. Mentre òe patenti di sanità sono il più delle volti belle stampe munite dei noti bolli di sanità, le fedi sono il più delle volte piccoli e semplici foglietti manoscritti compilati da un impiegato del comune. Le fedi dovevano riportare le caratteristiche somatiche della persona cui erano rilasciate insieme ad ogni altro elemento utile per una sicura identificazione. Se il cammino era lungo, il viaggiatore incontrava sicuramente per strada qualche controllo sanitario dove si disinfettava documento e si aggiungeva qualche annotazione che serviva principalmente per confermare i luoghi dove il viaggiatore era transitato. Ogni imbarcazione, quando si accingeva a salpare, doveva munirsi di alcuni documenti- diversi a seconda della stazza, del tipo di vela, del porto di imbarcazione , del carico e della nazionalità. Tra questi vi era la Patente di Sanità, considerato il documento più importante nei tempi in cui infierivano epidemie. Alcune patenti erano prestampate per un uso specifico: alcune per il trasporto del sale, altre per accompagnare le barche da pesca, altre ancora accompagnavano i passeggeri imbarcati o le merci che riempivano la stiva o gli animali. Le patenti dovevano essere scritte con inchiostro e portare il bolle delle autorità che le rilasciava. Tutti i magistrati di sanità – nell’ambito del rispetto verso paesi stranieri- si impegnavano ad annotare sulle patenti che rilasciavano la triste evenienza dei primi casi di malattie contagiose.Le Patenti di sanità venivano accuratamente controllate da funzionari o medici deputati al controllo sanitario.Se le imbarcazioni provenivano da porti considerati sospetti, se durante la navigazione la barca era stata attaccata da corsari, l’equipaggio, i passeggeri ed il carico venivano messi in quarantena. Alla fine del periodo di quarantena il medico visitava nuovamente equipaggio e passeggeri e dava eventualmente il suo benestare al proseguo del viaggio. In genere le patenti del 1600 e del 1700 rispecchiano la religiosità della gente di mare riproducendo spesso il Cristo, la Madonna ed i santi protettori.I lazzarettiCon questo termine venivano indicati quegli ospedali dove un tempo si curavano i lebbrosi. Essi indicavano poi quei luoghi recintati presso i porti marittimi dove le navi, i naviganti e le loro merci venivano sottoposti a periodi di quarantena in tempi sospetti di pestilenza, A seconda delle epoche e delle località il lazzaretto ha assolto il compito di luogo di ricovero di malati molto gravi oppure di luogo nel quale uomini, animali e merci restavano isolati per tutto il periodo della quarantena.La Città/Stato di Venezia, la Repubblica della Serenissima fu la prima ad introdurre alla metà del 1300 il primo lazzaretto e le prime misure quarantenarie. Alcuni lazzaretti di grande dimensioni furono realizzati da architetti famosi e si possono ammirare ancor oggi come quello di Ancona nelle Marche e quello di San Gregorio a Milano, noto per il ruolo svolto durante l’epidemia di peste del 1576. I lazzaretti erano dotati di un Regolamento che prevedeva come ad esempio quello di Nitida ( Napoli) la distinzione in tre classi a seconda del prezzo pagato. L’organico del lazzaretto prevedeva la figura del medico, del cappellano, del custode, del curato, del capitano e delle guardie. Tutte queste figure dovevano render conto ad un Direttore. Il periodo di contumacia aveva una durata di quaranta giorni perché secondo la dottrina ippocratica dei giorni critici il quarantesimo è l’ultimo giorno nel quale può manifestarsi una malattia acuta, come appunto la peste. Il presupposto delle misure di contumacia fu la necessità di evitare la totale paralisi che faceva seguito alla messa al bando che in ambito marinaro ebbe per molti anni come conseguenza il rifiuto delle imbarcazioni che giungevano da paesi infetti, specie dal Levante Ottomano, considero perenne serbatoio di contagio. Il termine quarantena fu usato dapprima per indicare che l’isolamento durava quaranta giorni e tale fu conservato quando la contumacia era limitata a tre quarti di luna ( 22 giorni) o a due settimane .Le infinite disquisizioni sulla durata della contumacia fanno capire le difficoltà in cui si trovava chi doveva prendersi la responsabilità di garantire la tranquillità e la salute della popolazione con quella di non penalizzare il commercio.Nel ‘700/’800 un viaggio per le Americhe o per il Nord Europa poteva durare ben oltre un mese: l’equipaggio quindi tornava al porto di partenza dopo diversi mesi dove l’attendeva una contumacia di un altro mese.Capitava dunque che qualche marinaio approfittasse della notte per scappare pur consapevole dei rischi che correva. Insieme alle merci anche gli animali dovevano restare in quarantena. Alcuni lazzaretti avevano stalle molto ampie. Le spese della quarantena di quanti si spostavano via terra erano a carico dei viaggiatori, quelle per via mare erano a carico del padrone delle imbarcazioni. Oltre alla quarantena nei lazzaretti, nei periodi di epidemie le persone potevano essere sottoposte a sequestro domiciliare, specie se la famiglia che vi abitava aveva avuto un decesso dovuto alla malattia epidemica che infieriva in quel momento.I mediciDurante i periodi di epidemia, i medici erano in prima fila. La spaventosa contagiosità della peste non risparmiava nessuno che avesse rapporto con gli appestati, cosicché insieme a migliaia di popolani morivano di peste o di altre epidemie anche i medici. Il timore di non avere più medici era molto sentito tanto che , in considerazione del rischio di esser contagiato e morire, si invitava talvolta i medici a vivere in abitazioni di campagna. Alcune volte, il medico, consapevole del rischio della sua vita sceglieva la soluzione della fuga attirando su di sé lo sdegno e l’ira da parte della comunità e delle autorità sanitarie e civili.Di fronte all’incalzare del male, la gente cercava i medici più bravi, più pronti e disponibili. I medici che prestavano la loro attività nei lazzaretti erano i più esposti al contagio e venivano mal visti dalla popolazione perché considerati potenziali fonti di contagio.Durante i periodi di peste il medico adottava ovviamente misure di protezione individuale, tra cui la maschera con il caratteristico becco adunco ed un vestiario che copriva la maggior parte del corpo.I rimediL’uomo ha sempre cercato qualche rimedio contro le malattie pestilenziali e nei trattati del ‘400-‘700 si trovano molti consigli che venivano proposti in assenza di qualsiasi conoscenza sull’eziologia e patogenesi delle malattie. Tra questi il salasso, lo sfregamento del malato, il trattamento evacuante. Mille altri rimedi più o meno codificati arricchivano l’armamentario terapeutico dei medici nel corso delle epidemie. Vi era poi una medicina popolare prodiga di rimedi basati sulla superstizione e sulla magia. Vi era poi il ricorso a santi protettori o a pratiche miranti a curare i malati dei peste o a proteggere le persone dal contagio.